Prendo in prestito il titolo di un bellissimo film del regista italiano Carlo Mazzacurati (che vi consiglio vivamente) per parlarvi del mio rientro dall’Antartide.
Lasciare l’Antartide è stato difficilissimo.
Non sto parlando di “lasciare” nel senso di allontanamento fisico dal continente (per quanto anche quello sia stato logisticamente difficoltoso) ma sto parlando di un lasciare più profondo. Un “lasciare” che significa andarsene “per sempre” sapendo di non poter tornare più. E’ un po’ come morire (tranquilli… ho scritto “un po'”…). Per cui spero mi capirete quando vi confesso che il silenzio dell’ultimo periodo è stato un momento necessario per una sorta di elaborazione di questo distacco. Per arrivare, appunto, alla giusta distanza che, in realtà, non so se riuscirò a raggiungere mai.
Qualcuno degli amici che ho conosciuto a Mario Zucchelli Station mi aveva parlato di “mal d’Antartide” e, sinceramente, già dai primi giorni in cui ho messo piede nel favoloso continente non ho avuto nessun dubbio che ne avrei sofferto al momento della partenza. Partenza che è stata ancora più traumatica perché improvvisa…
L’Antartide ti entra dentro e una parte del tuo cuore resta “intrappolato” tra i ghiacci e, come in ogni favola che si rispetti, l’altra parte che torna a casa con te sentirà per sempre il richiamo di quel pezzettino rimasto nel continente bianco.
L’Antartide ti travolge con la sua potenza. Di fronte ai suoi monumenti naturali ognuno non può che sentirsi “piccolo piccolo” come davanti qualcosa di “gigantesco”. L’Antartide è maestosa e regale ma al contempo semplice ed essenziale. Quando si torna al mondo reale (perché chiaramente l’altro è parso “surreale”) tutto sembra superfluo. In Antartide si perde il contatto con tanti “oggettini” che nella nostra vita quotidiana sembrano fondamentali: portafoglio, bancomat, cellulare… Tutti finiscono nel “cestino” del nostro cervello che trova, proprio in questo “mondo alla fine del mondo”, la sua dimensione autentica … quella che sarebbe se non ci fossero le sovrastrutture che noi abitanti del “primo mondo” ci siamo creati e che, in questo “mondo zero” (o sarebbe meglio dire: “sotto zero”) tornano ad essere quello che sono realmente: fardelli per il nostro spirito libero e “selvatico” (termine che qui uso nella sua accezione assolutamente positiva).
So che forse è difficile comprendere quello che sto scrivendo ma sono delle emozioni, o meglio delle sensazioni che volevo condividere con tutti voi che mi avete seguito in questa meravigliosa avventura pur sapendo che non ci sono parole abbastanza “colorate e profumate” e per descrivere tutto quello che mi ha riempito gli occhi e che ha travolto i miei sensi nei mesi passati a Mario Zucchelli Station, 74° 41′ Sud -164° 07′ Est.
Piano piano sono tornata alla mia vita ( e gli amici antartici sanno quanto è difficile ributtarcisi dentro…) e sto cercando di raccontare questa esperienza unica. Piano piano le immagini, ora nitide e vivissime , di questo periodo importante della mia vita diventeranno un “bianco ricordo” ma so già che ogni volta che dovrò parlare dell’Antartide e che riguarderò le migliaia di foto che ho scattato, quel pezzettino di cuore rimasto là batterà più forte e il suo richiamo si farà sentire…
Ed ora voglio finire questo post “nostalgico” lasciandovi una poesia (perché, ebbene sì..sfatiamo un mito: anche noi Proff. di Scienze amiamo la letteratura!). Una poesia di un poeta greco che apparentemente non centra nulla con l’Antartide. Una poesia che mi ha spedito ad ottobre, prima che partissi, una docente che avevo conosciuto ai “Tre giorni della scuola” a Napoli. Una poesia che solo dopo il mio ritorno, appunto con la” giusta distanza”, sono riuscita a capire in profondità e che mi emoziona ogni volta che rileggo e per la quale ringrazio Aurelia che, quasi come una vaticinante (per rimanere in tema), me l’ha inviata.
ITACA
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Costantino Kavafis